I femminielli nella cultura napoletana: una storia antica, anzi eterna

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Nella settimana che avrebbe dovuto ospitare il Napoli Pride abbiamo scelto di parlarvi di femminielli. Il femminiello è un personaggio molto caratteristico della cultura partenopea. Al contrario di quanto accade nelle altre città italiane, questo non è semplicemente un nomignolo con cui apostrofare i maschi omosessuali, o le donne transessuali, femminielle, ma è portatore di antichi valori che trovano origine nei riti dedicati alla dea Cibele.

Ancora oggi si usa far prendere in braccio, al femminiello di quartiere, il guaglione appena nato, sembra che porti fortuna. Attorno a questa figura aleggia tuttora un’aura di mistero: emblemi del terzo sesso, i femminielli incarnano il mistero della creazione. Per questo motivo tutti gli anni sono chiamati a compiere riti propiziatori come la “juta dei femminielli” (pellegrinaggio alla madonna di Montevergine il giorno di Candelora) o “la figliata dei femminielli”, antico e suggestivo rito rappresentato in molte opere cinematografiche italiane (una sorta di parata del gay pride ante litteram!).

Ma i femminielli non sono accettati nella cultura partenopea solo per i loro “poteri taumaturgici”. Essi infatti furono protagonisti della liberazione della città di Napoli dall’occupazione nazi-fascista e partiremo proprio da qui per raccontarvi la loro storia. (Gira che ti rigira il cetriolo va sempre in culo ai fascisti, e gli piace pure molto!)

 

Femminielli, un personaggio molto caratteristico della cultura partenopea.

Napoli per alcuni è pizza, vrenzole e cuozzi, e Gigi d’Alessio. Per me Napoli è Resistenza e Femminielli. Le quattro giornate di Napoli furono un episodio storico di insurrezione popolare avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il 27 e il 30 settembre 1943. In pochi però sanno che a combattere non ci furono solo partigiani maschi eterosessuali, ma un grosso contributo lo diedero i Femminielli. (Molto grosso, XXL!).

Furono in prima linea costruendo le barricate per fermare i rastrellamenti dei nazisti, che stavano scovando gli ammutinamenti alla leva obbligatoria promulgata dal prefetto. Questa intimava alla leva 30 mila uomini di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Di questi però si presentarono 150 in tutto, grazie alle mogli che li nascosero come potevano, e ai femminielli che bloccarono tutti i vicoli del rione San Giovanniello.

Antonio Amoretti, partigiano, è depositario storico di quel giorno e racconta che “Quando scoppiarono le insurrezioni, i femminielli scesero in strada sparando al fianco di noialtri”.
Dopo quattro giornate di battaglia i napoletani riuscirono a liberare la città dall’occupazione nazifascista.

Il Presidente dell’Arcigay di Napoli, Antonello Sannino, ci riporta che: “Combatterono secondo la logica che non avevano niente da perdere: non avevano figli, la famiglia li aveva ripudiati e la società li rispettava culturalmente ma comunque entro certi limiti. Abituati a fronteggiare la polizia e il potere, i femminielli non si tirarono indietro davanti all’occupazione nazista”. Inoltre, molti femminielli intrattenevano relazioni clandestine con gli uomini dei rispettivi rioni, perciò combatterono per non rischiare di veder perdere i loro amati, esattamente come le tante mogli. 

I femminielli parteciparono alle quattro giornate di Napoli

Ma adesso facciamo un ulteriore salto nel passato e andiamo a scoprire le leggende medievali e i culti ancestrali che vengono tenuti in vita dai femminielli.

Sui monti del Partenio, in provincia di Avellino, si trova il santuario della Madonna nera di Montevergine, anche chiamata Mamma Schiavona. Una leggenda medievale narra che, secoli or sono, durante il giorno di Candelora, proprio sui monti dell’Avella la vergine nera soccorse due amanti omosessuali, lasciati a morire legati ad un albero. Ora, noi non sappiamo di preciso se quello fosse un perverso gioco sessuale e se la cosa fosse consensuale, sta di fatto che la Mamma è diventata la protettrice dei femminielli e delle persone omosessuali e, per estensione, di tutt* coloro che non rientrano nelle categorie eteronormative. Da quel giorno, ogni 2 febbraio molte persone affollano il santuario, dando vita al pellegrinaggio conosciuto come Juta dei femminielli.

Su queste vette, già in antichità, i Coribanti, sacerdoti della dea Cibele, grande madre nera, come la Schiavona, e potente simbolo femminile come Lizzo, si eviravano in maniera rituale per offrire il loro pene in dono alla dea. Al tempo non esistevano gli smartphone ed era un po’ difficile inviare le fotoca**o. Durante questi riti, i sacerdoti, rinascevano a nuova vita e, truccandosi e vestendosi come drag queen, attraversavano le strade del paese tra balli e canti.

Ancora oggi, tra sacro e profano, tra mito e realtà, in Campania avviene quotidianamente un piccolo miracolo: la presa di coscienza dell’esistenza delle persone LGBTQIAPK+. Apprendiamo anche noi dalla cultura Partenopea, per celebrare il nostro Pride tutti i giorni, riappropriandoci anche di quelle tradizioni e leggende che la cultura dominante ha spesso represso e gettato nell’ombra.

Statua della dea Cibele

Durante i pellegrinaggi dei femminielli al santuario di Montevergine si intonano particolari canti, noti come Tammurriata, che hanno travalicato la cultura popolare per entrare a pieno diritto nelle colonne sonore di numerose pellicole italiane. Pasolini, ad esempio, nel 1960, volle registrarla per utilizzarla nel suo Decameron.

Quando si parla di Tammurriata, non si può non volare con il pensiero alla Campania felix, terra felix per i Romani per la fertilità dei suoi campi, ma felix per l’intero genere umano perché da sempre genitrice di cultura e arti, non ultima la danza.

La Tammurriata, tipica danza campana, è un sottogruppo della più generica Tarantella meridionale, che trae il nome dallo strumento principale che viene utilizzato durante la sua esecuzione: la “tammorra”, un grande tamburo a cornice dotato di sonagli di latta, il quale può presentare decorazioni policrome ed accessori d’addobbo come nastri e campanelli. Generalmente la tammorra viene affiancata da una voce e da una o più coppie di danzatori.

La tammurriata è caratterizzata dalla sua connotazione religiosa: a differenza delle altre tarantelle, come la pizzica, non è una danza di seduzione tra due innamorati. I movimenti frenetici ed estatici che eseguono i ballerini, ricordano più un rito di esternazione, rivolto a precisi simboli religiosi, in primis la Vergine.

"tammorra", strumento musicale con cui si suona la Tammurriata

Dedichiamoci ora al rito forse più misterioso e affascinante legato alla figura dei femminielli. Rito di ascendenza ancestrale, la figliata dei femminielli consta in una mimica dei dolori del parto. Il femminiello con il ruolo di moglie simula le doglie e dà alla luce il neonato, che può essere una bambola di pezza o un grande fallo di legno, mentre i presenti cantano una litania. L’evento viene festeggiato con babà e Vermouth… ‘Nsomma ogni occasione è bona pe’ ‘mbriacasse.

La figliata è un rito della fecondità, che affonda le proprie radici in un antico rito in onore di Cibele, al cui sacerdozio erano ammessi solo gli evirati per emulazione di Attis. Costui, secondo una delle varianti del mito, si evirò per vendicarsi della dea, che, non ricambiata nel suo amore, aveva ucciso la ninfa da lui amata. Si sa, una vita senza cazzo non è una vita che vale la pena di essere vissuta, motivo per il quale Cibele restituì ad Attis il suo membro, rendendolo suo paredro.

Durante la figliata, la nascita deve però rimanere un mistero, ecco perché, al momento del parto, viene tirato un velo che celi l’atto in sé.

Il mistero è tematica cara al mondo partenopeo, basti ricordare il Cristo Velato di Napoli, il cui velo rende imperscrutabile l’espressione del Messia, concorrendo ad accrescere l’aurea di mistero che aleggia attorno a questa scultura. Un velo che dunque nasconda, e che non deve essere squarciato, come quello di Maya, per poter comprendere il mondo e la realtà che ci circonda.

Molte sono le citazioni della figliata nella letteratura e nel cinema. Tra queste quella di Ozpetek, che rappresenta la figliata dei femminielli nella sua pellicola “Napoli Velata” (2017). Possiamo trovare altre rappresentazioni della figliata anche nel film di Liliana Cavani, “La Pelle”, 1981, tratto dall’omonimo romanzo di Curzio Malaparte; e nel film “Pagani”, 2016, di Elisa Flaminia Inno.

Frame del film Napoli Velata di Ozpetek

 

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