La sessualità fuori dal comune in un appartamento nel cuore di Milano.

Condividi con :
Share

 

 

“Me, you, us in a paraphilic continuum” è una mostra collettiva fotografica che indaga l’universo delle parafilie, la sessualità inusuale.

 

L’appuntamento è sabato dalle 15, in questa abitazione privata nel cuore di una Milano che sembra più autunnale che pre-estiva. Citofoniamo. “Siamo qui per la mostra”: una voce femminile ci risponde di salire al primo piano.

L’appartamento è piccolo, siamo fra le prime ad arrivare e veniamo accolte con discrezione e gentilezza dal team di Homemade Gallery, che ci invita ad esplorare con calma gli ambienti approfittando dell’assenza di altri visitatori.

L’atmosfera è intima, perfettamente in linea con il titolo della mostra che siamo venute a vedere: Me, You, Us in a paraphilic continuum. Un’esposizione ultra-temporanea di fotografie, visitabile solo per questo weekend, solo per un numero limitato di fortunati che hanno avuto modo di prenotarsi via e-mail. E il tema è decisamente sopra le righe.

Si parla di parafilie, “le attitudini e i comportamenti sessuali anomali e inusuali, vissuti con angoscia o recanti disagio psicofisico a terzi non consenzienti” – questa la definizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – filtrate attraverso lo sguardo di 11 artisti.

Dal corridoio, tappezzato con i nomi delle varie parafilie, si accede ai quattro ambienti della mostra: nella prima stanza ci accoglie Chirale di Kein Platz, scatti e video legati al mondo virtuale di Chatroulette. E’ un mondo che l’artista considera guidato da una dinamica schizofrenica di avvicinamento e allontanamento, dove si cercano incontri (virtuali) avvicinandosi e lasciandosi avvicinare ma senza compromettere il proprio isolamento. Perché il desiderio di chi si mostra online è spesso di abbandonarsi verbalmente e fisicamente ma a distanza controllata: l’interazione può sparire in un clic, disconnettendosi o passando ad un’altra chat. L’epilogo di un tale percorso, nel quale l’artista si è messo in gioco per mesi, è racchiuso nel breve video che accompagna gli scatti. E’ una sequenza brevissima ma che trasmette angoscia, mandata in loop su un laptop poggiato su uno scaffale a muro: un uomo nudo che tenta di uscire da una finestra, rappresentazione della finestra virtuale e di quella sulla vita – a volte solitaria e dolorosa – di chi vive queste chat come un’estensione del quotidiano.

“Chirale” di Kein Platz

Nella penombra della stessa stanza troviamo Marco P. Valli e Anna Adamo col progetto Bakeka, legato all’esibizionismo virtuale. Bakeka nasce nel 2013 da una ricerca di Marco iniziata con l’osservazione di scambisti ed esibizionisti che si incontrano dal vivo grazie agli annunci online. Gli artisti si sono proposti come coppia di fotografi professionisti e li hanno incontrati di persona: spesso umani diametralmente opposti a come si mostrano virtualmente, i soggetti sono stati capaci di coinvolgere gli artisti. Che non solo si sono scoperti – per loro stessa ammissione – un po’ voyeur ma che hanno iniziato a considerare l’esibizionismo come un lato multisfaccettato della sessualità. Tutt’altro che un’anormalità psichica.

“Bakeka” di Marco P. Valli e Anna Adamo

Cambiamo stanza e ci dirigiamo verso la camera da letto: qui sono Fausto Serafini e Alessandra Pace, coppia affiatata nella professione e nella vita, a portarci nell’intimo delle relazioni che instaurano con i soggetti – femminili – che ritraggono. La loro è una fotografia che ascolta, per far emergere la sessualità unica e personalissima delle ragazze ritratte. Dicono che non gliene frega nulla delle etichette che la scienza offre: quello che li muove è il desiderio di capire e capirsi, di osservare le loro inclinazioni e quelle dei soggetti che ritraggono. E nel farlo l’aspetto umano è essenziale: instaurano rapporti che definiscono speciali con i loro soggetti, ci entrano in confidenza e li rendono parte della loro vita prima ancora che dei loro scatti.

Fausto Serafini e Alessandra Pace

Accanto a loro il lavoro di Chiara Bruni: MANNEQUINS_Second Study About Fear. Incentrato sul suo rapporto di attrazione/repulsione nei confronti di una serie di manichini salvati da suo nonno dopo l’alluvione del 1979 a Isola Liri, MANNEQUINS è uno studio sull’automatonofobia e un tentativo personale di esorcizzare i demoni mentali suscitati dalla presenza di questi oggetti. Ritraendone le crepe, plastica, smalto, l’artista sottolinea la non-umanità di quelli che chiama gli abitanti inanimati del secondo piano ma evidenzia anche il mix di eccitazione e paura che caratterizzano l’attrazione verso l’insolito e l’inesplorato. E chiude il gioco durato per anni fra la sua mente e questi feticci, uscendone vittoriosa e liberata.

“MANNEQUINS_Second Study About Fear” di Chiara Bruni

All’altra sponda del letto c’è Giuseppe Morello: tele con scatti fuori fuoco, immagini liquefatte che richiamano ai fluidi corporei, protagonisti di atti come il pissing o il facial. Si tratta di dettagli visibilmente decontestualizzati, attimi estrapolati spesso da orge con l’intento di sintetizzare una situazione intera a partire da uno sguardo o da una smorfia. Sono scatti da cui traspare l’aspetto di estrema umanità che, come sottolinea lui stesso, c’è dietro la condivisione di intimità sessuale fra sconosciuti. La parafilia è anche in questo caso solo una parola, quasi svuotata del suo significato: una semplice etichetta per chiamare per nome pratiche per lui assolutamente normali.

Giuseppe Morello

Usciamo dalla stanza e scambiamo due parole con Vera Caleca e Ludovica Vando, due delle curatrici. Scopriamo così che il progetto Homemade Gallery è alla sua terza mostra: attualmente sono in quattro a portarlo avanti ma l’idea di organizzare piccole esibizioni indipendenti e itineranti in appartamenti privati nasce nel 2016, da Anni W e Giacomo Piloni.

Sorseggiando spumante nella luce rosa riflessa dalle piastrelle del bagno ascolto le ragazze di HomeMade Gallery che mi raccontano di come l’idea di realizzare una mostra sulle parafilie sia nata quasi per caso: Vera aveva con sé un testo di psicologia clinica che ha spinto il gruppo a interrogarsi sul DSM, sulla mutevolezza del confine fra normale e anormale e su come le categorie parafiliache si siano evolute nel tempo.

Ma la conversazione va oltre: mi parlano degli artisti, di come alcuni dei progetti presenti non siano costruzioni fotografiche ma veri e propri pezzi della vita intima di chi li ha realizzati. Di come la mostra sia volutamente un mix di lavori espliciti ed estremi ma anche di scatti più soft. E di come qualcuno ancora si scandalizzi davanti alle rappresentazioni sessuali e abbia bisogno di uscire a prendere una boccata d’aria dopo aver visto foto del genere.

Ad esempio quelle di Luca Mata, una galleria di istantanee, tecnicamente imperfette ma proprio per questo più narrative. Le situazioni ritratte sono giocose, ogni soggetto è colto nella sua autenticità, visibilmente a suo agio ma non per questo bello o perfetto. La galleria di Luca è ricca e diversificata, rappresentativa di ogni tipologia umana. Sono persone comuni che si lasciano andare alle loro fantasie e ai loro desideri, senza limiti e superando i tabù: un atto che in fondo è ancora rivoluzionario e che ancora scuote, scandalizza, impressiona.

Luca Mata

Il coraggio è un aspetto importante anche per il lavoro di Giovanni Verardi: qui lui è completamente partecipe, non solo come osservatore ma per una volta anche come soggetto. Una necessità mossa da egocentrismo ma anche e soprattutto dalla voglia di esporsi, raccontarsi e conoscersi. Anche per lui le parafilie sono tutto meno che anomalie: questi gesti di lecito egoismo volti a soddisfare il proprio piacere sono atti d’amore nei confronti di sé stessi e proprio per questo manifestazioni di coraggio.

Giovanni Verardi

L’ultima stanza della casa è la cucina. Qui troviamo incorniciati i lavori di Giulia Bersani, elegante e poetica testimonianza della sessualità giovanile. Giulia sottolinea con le foto alcuni dei valori che le sono cari: la sincerità nel raccontarsi, la libertà sessuale ma anche semplicemente corporea, la bellezza dello scoprire in qualcun altro pezzetti di sé e delle proprie emozioni.

Sono foto di dettagli, emotive, firmate a penna: c’è dentro la visibile commozione per l’imperfezione e per la complessità umana, che si presta all’osservazione ma non alle rigide classificazioni.

Giulia Bersani

Sulla parete accanto c’è Alessandro Ponti: è il desiderio con le sue suggestioni ad interessarlo, e sono queste suggestioni ciò che lui cerca di fissare con le immagini. Una ricerca di pose e di dettagli corporei che ha qualcosa di morboso e che lui ritiene essere un processo estenuante per gli occhi e per la mente.

I suoi scatti sono cerebrali. È il corpo ad apparire ma la mente ha il ruolo più importante, l’artista scopre sé stesso e la sua psiche proprio grazie allo scambio di energie con i soggetti ritratti. E anche la parafilia è un gioco mentale: ossessiva e in grado di offuscare la realtà, fa slittare in secondo piano l’atto fisico.

Alessandro Ponti

La nostra visita è giunta al termine. Prima di uscire dall’appartamento torniamo in bagno: sul bordo della vasca da bagno ci sono blocchetti di fogli colorati e penne biro. Ci scriviamo in bella calligrafia le nostre deviazioni e le abbandoniamo lì, mescolate a quelle degli altri visitatori, in un perfetto continuum parafiliaco.

Milano, 6 – 7 maggio, Homemade Gallery

http://wearehomemadegallery.tumblr.com/

Instagram:
@homemadegallery

Parole di: Sally Bowles – rapsallybowles@gmail.com – Instagram: @dalailarri

Foto di: Evelyn Vargas – Evelyn.vargas@hotmail.it – Instagram: @o_von_masoch

QUEEF Magazine

Newsletter

Riceverai tutti i nostri articoli, interviste e le nostre esclusive gallerie degli artisti prima di tutti.

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Condividi con :
Share
Etichettato

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

WordPress PopUp Plugin