Tsquirt incontra, intervista a Lulu Withheld

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© Lulù Withheld
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Lulu Withheld ha compiuto studi artistici alla fine degli anni ’90, a cavallo del millenium bug. Orfana e refrattaria alle regole, dopo avere studiato architettura, ha iniziato a viaggiare per il mondo in cerca di se stessa e dei suoi fantasmi (interiori).

Fotografia di Lulù Withheld
Lulù Withheld

Ha girato una quantità considerevole (nonché effimera) di video, ha partecipato a qualche mostra (collettiva), ha raccontato le sue storie (in forma scritta), ha dato vita ad alcune performance e installazioni. E infine è tornata al punto di partenza, alla fotografia Il primo grande amore della sua vita. Ringrazio Lulù per gli splendidi scatti realizzate con la tshirt “Santos Subitos” ideata da Pupazzaro e Manocchio e prodotta da tsquirt, indossata da Gaia durante il workshop Wild Stage spring edition al Nassau di Wild Romagna project. Ora subito spazio alle sue parole e al racconto interessantissimo di Lulù e della sua arte.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld 
T-shirt Santos Subitos by tsquirt

Ciao Lulù, grazie di cuore per aver scelto di partecipare alla rubrica tsquirt incontra e grazie per gli scatti che mi hai donato. Partiamo dalla genesi della tua passione per la fotografia. Quando nasce e come ti sei avvicinata alla macchina fotografica? Ricordi i tuoi primi scatti?
Ciao! Innanzitutto grazie per avermi invitata qui, ne sono rimasta sorpresa e lusingata! Se penso all’inizio della mia fotografia mi viene in mente questa storia, che forse più che una storia è (come) un’immagine, come una sensazione di un ricordo. Eravamo partiti all’alba. Un viola livido intratteneva il cielo come una distesa di fiori selvatici. «Il viaggio sarà lungo», ha detto Patrick. Gli ho risposto «Che tutti i viaggi, in fondo, lo sono». Abbiamo sorriso. Entrambi. Le ore sono passate attraverso il finestrino e nei profili delle colline e lungo le distese dei campi e l’odore dei caffè dell’Autogrill. Al mio ennesimo «Siamo arrivati?», Patrick mi ha detto «Il viaggio non consiste solo nell’arrivare a destinazione. Bensì comincia con la partenza. Goditi il tempo nel mezzo…». Il tempo mi ha sempre garantito riparo e mi ha permesso di immaginare storie guardando fuori dal finestrino. Fingendo mondi diversi dal mio. Come in un film, sulla propria timeline. È sempre stato il tempo a proteggermi, dando alle immagini la giusta collocazione. Il sole, basso di taglio, ha cominciato a entrare con violenza dentro l’abitacolo dell’auto, rifrangendosi in mille arcobaleni sul vetro sporco del parabrezza. «Ogni viaggio rende diversi, ogni viaggio ti regala un’altra visione», ha detto ancora Patrick, con le mani appena poggiate sul volante. «Lo puoi toccare il tempo, se chiudi gli occhi». E io ho chiuso gli occhi. Chiudili. Senti. Lo senti? Il tempo, come nelle fotografie. Poi ha aggiunto «Fermiamoci a guardare il giorno che muore». E ha accostato. Quanta malinconia nelle sue parole. Quanta fine in poche, pochissime parole. Quanta fine… Allora io ho scattato una foto al tramonto. Lì da dentro la macchina, dal finestrino abbassato. Ce l’ho ancora quello scatto. E vedere quella foto mi rimanda sempre al momento esatto. Di questa storia. Di quel giorno. Poi sono scesa e ne ho scattata una a Patrick. Le mani ancora sul volante. Un guizzo di luce sui suoi anelli dorati. Aveva questo sguardo, inquieto, risentito, assorto, distante. Una roba – quasi – indicibile nei suoi occhi. Non l’avevo mai visto così, sconvolto. Non l’avevo mai visto così. Ricordo che stavo lì e, non so non lo so più, sentivo che un gigantesco vuoto come quella vertigine che ti prende quando scendi le scale senza pensare che le stai scendendo, ecco questo vuoto sarebbe apparso tra il momento in cui “avessi scattato” e la mia pelle e quel tramonto e il suo fumo e Lui. Dopodiché ha aggiunto «La luce del tramonto non è la tua luce, Lulù, la tua luce è nell’alba». Lo so. Che peccato. La mia è una luce fredda. Ma so che è anche una luce piena di speranza. «I tuoi tramonti, Pat, sono caldi, ma non danno tregua. E sono sempre la fine, i tramonti». Poi ha guidato con quel pezzo di giorno morente negli occhi, in un silenzio straziante, con la sigaretta incollata alle labbra. C’era solo la musica in sottofondo nell’abitacolo. Una cassetta nuova di Nick Cave. L’odore del fumo. Le mani sulle gambe strette. “E tutto appare sempre e soltanto una volta, e di quell’una volta, la foto fa poi un sempre. Soltanto attraverso la fotografia il tempo diventa visibile, e nel tempo, tra la prima fotografia e la seconda appare la storia, che senza queste due foto sarebbe caduta nell’oblio di un altro sempre” (W. Wenders).

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Hai compiuto studi artistici e hai studiato architettura. Questo percorso formativo ha influenzato il tuo modo di scattare?
Sicuramente sì, senza ombra di dubbio. Credo fermamente che non esista esperienza che non vada a influenzare/plasmare il proprio modo di essere e, dunque, il proprio modo di fare arte. Il mio “apprendistato artistico” è stato in ambito pittorico e ho avuto il piacere, nonché la fortuna, di avere a che fare con dei maestri, appassionati rigorosi e folli. Ancora oggi trovo quel passaggio della mia vita per molti versi fondante, un vero e proprio coming-of-age artistico. Come quando, nei film o nei romanzi, il protagonista incontra il mentore che lo aiuterà nel suo personalissimo “viaggio dell’eroe”. Uno dei miei maestri ebbe a dirmi qualcosa del genere durante una qualche non canonica lezione: «Quello che senti lo sentirai sempre con tutto il peso della portata che ha. Non scappare da questo “sentire”. Attraversalo questo “sentire” e quando lo avrai accettato vedrai che definirà costantemente il tuo modo di stare al mondo e di fare arte, nel bene e nel male».
La scelta di studiare architettura è stata una scelta indotta, per non dire bonariamente forzata. Ed è lì, però, che ho imparato a processare “le idee”, prendendomi tutto il tempo necessario. Sai no? Afferrare un’idea, ragionarci, portarla avanti o tornare indietro, realizzare gli schizzi preparatori, fare i sopralluoghi, prendere note e appunti, valutare le ore di luce e avere dimestichezza con i punti cardinali, le infinite revisioni ai progetti, il lavoro di gruppo e via dicendo. Questa forma mentis di progettare e processare le idee mi è rimasta in tutti i progetti artistici nei quali poi mi sono imbattuta. Salvo poi ritrovarmi schizofrenicamente in bilico tra “il pianifica ogni cosa” e “il manda all’aria tutto e improvvisa”. Yeah, It’s me.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Dopo gli studi hai iniziato a girare per il mondo. Irrequietezza o curiosità dell’altro?
Hai presente quelle persone che quando le inviti a sedersi si siedono in modo sghembo? Tipo sul bordo della sedia, magari un po’ di lato, o sul bracciolo. Quelle persone sempre pronte ad andarsene. Ecco, io sono una di quelle. Perennemente in bilico. È che sono andata via da casa molto troppo presto e, per tutta la vita, ho continuato in maniera indefessa a cercare un posto che fosse casa. Di città in città, “di canzone in canzone”. So che è un “sentimento” comune a molte persone che lasciano il proprio “paese”. Questa continua ricerca, questa perenne nostalgia. “Casa è dove finiscono tutti i tuoi tentativi di fuga”.

Fotografia di Lulù Withheld
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In che modo i tuoi viaggi ti hanno arricchito per quello che poi è diventato il tuo modo di fotografare?
Da nessun viaggio si torna uguali a come si era partiti.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Il tuo stile fotografico per quanto variegato, sia nell’uso del colore o meno che per l’estetica che restituisce all’osservatore, è riconoscibile. Qual è stato il processo creativo che ti ha portato ad avere un tuo stile?
Un autore che amo molto ha detto durante un’intervista, a proposito dello stile, che lo stile è generato da meccanismi che nessuno di noi conosce. Quello che posso dire io, a proposito delle mie immagini, è che non saprei fare se non così. Forse lo stile è qualcosa di propriamente naturale, connaturato al gesto dell’esperienza, in senso lato. È il modo in cui il proprio sguardo si posa sul mondo. Un fatto percettivo, un fatto di respiro, un modo di essere infine.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Colore. Bianco e nero. Sfocature. Messa a fuoco. Come scegli in che modo fotografare? Hai una preferenza in generale o ti lasci guidare dall’istinto?
Direi che tutto è in funzione della “storia” che si intende narrare. Ogni elemento concorre al racconto visivo, anche quando si pensa che il racconto non ci sia. Un certo modo di utilizzare il colore e quale colore, oppure l’assenza di colore. Il modo di utilizzare la luce, quanta di questa luce utilizzare, e piegare. Cosa lasciare fuori dal quadro e cosa invece inquadrare. Cosa mostrare, quanto mostrare. Cosa sfuocare e cosa lasciare nitidamente a fuoco. C’è sì, sicuramente, dell’istintività in queste scelte, ma c’è anche alla base la consapevolezza sia nell’utilizzo del mezzo che nell’intenzionalità della comunicazione.
Ti racconto una brevissima storia:

Allora, siamo su un piccolo set, in esterni su un ponte. È già notte e i lampioni gettano coni di luce arancione, l’orizzonte è invece inghiottito nel nero. La protagonista avanza a figura intera, in campo lungo, a favore di macchina. I suoi lunghi capelli rossi sono mossi dal vento. Avanza verso di noi, e più avanza più perdiamo il fuoco. Quando dovremmo vederla, finalmente in primo piano, noi invece non la vediamo, non possiamo afferrarla. Ci sfugge, poiché è completamente fuori fuoco. Resta a fuoco solo il paesaggio alle sue spalle, il ponte, la linea bianca sull’asfalto, gli alberi, i lampioni. Ma non lei. Non Lei. In molti mi hanno chiesto il perché di questa scelta. Alcuni mi hanno chiesto se fosse un errore. La verità è che lei non poteva in nessun modo essere a fuoco, per me intendo. Io non avevo nessuna intenzione di mostrarla agli spettatori. È stato come mettere chi guarda nelle condizioni di cercare proprio quello che non gli si voleva mostrare, ciò che non era a fuoco. Il muro il bosco gli alberi il ponte era tutto a portata della sua vista, eppure lo spettatore è stato costantemente attratto da ciò che io non volevo dargli.
L’impossibilità della visione. Vedi, quel fuori fuoco resta un segreto. Come quando su un testo scritto cancelli una parte e stai sicuro che chi legge si focalizzerà sul volere sapere cosa c’è scritto sotto quelle cancellature. Curioso no? La composizione dell’immagine coincide, per chi si occupa di arti visive, con l’atto della genesi. Il modo in cui gli elementi presenti nella composizione entreranno in relazione fra loro, in un equilibrio delle forze o in perfetta discordanza, andranno a generare senso. C’è un potere enorme nella composizione di un’immagine se ci pensi, puoi veicolare il desiderio se ci pensi, puoi caricarle di senso le immagini e lasciare che gli altri possano sguazzarci e respirare quel senso. Poiché una volta che la tua opera viene data in pasto al pubblico è il pubblico che si appropria della storia. Di decifrarla la storia, di sentirla. Mediante gli elementi utilizzati.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Corpi nudi, primi piani, luoghi. Così come la tecnica anche i soggetti immortalati sono dei più vari. Cosa ti ispira? Cosa ti spinge a fotografare? Cosa ritieni interessante fermare nel tempo e renderlo immortale con i tuoi scatti?
Più che ispirata sono ossessionata dai dettagli. Sono nata con un deficit uditivo e quindi non posso sentire come la maggior parte delle persone. Questa “mancanza” mi ha portato a sviluppare una sensibilità maggiore verso certi dettagli, certi non detti, certe espressioni facciali o gesti. Un modo diverso di ascoltare/ leggere le persone. Mi ispirano un casino questi piccoli gesti che vengono fatti senza consapevolezza, come il toccarsi i capelli, rigirarsi gli anelli fra le dita, mangiarsi le unghie, inumidirsi le labbra. Le persone rivelano tanto di loro stesse anche quando tacciono. Da bambina mi piaceva un sacco guardare mia madre quando si toglieva gli occhiali e si stropicciava gli occhi con le due dita della stessa mano, distante assente bellissima. Mi piaceva guardare mio padre mentre alla guida faceva manovra tenendo la sigaretta accesa fra le labbra buttando fuori il fumo dalla narici, in un modo molto cinematografico. Tutti questi gesti inconsapevoli narrano in qualche modo milioni di piccole verità sulle persone, il loro modo di stare al mondo. E poi sì passare dai corpi nudi e dai primi piani ai luoghi dove le persone vivono, perché i luoghi sono impregnati profondamente delle tracce delle persone. Persino i non-luoghi sono carichi di queste umane tracce. Stanze vuote d’albergo, treni, stazioni, edifici dismessi. In tutti questi luoghi qualcosa resta sempre. Un addio, una dolce malinconia, una scritta sui muri, una macchia sulle lenzuola. Insomma credo che ogni cosa faccia parte della narrazione, anche quello che rimane fuori dal quadro. Fotografare è quasi come un prendere possesso di ciò che si fotografa, una specie di atto di comprensione nonché un “atto di potere” sul mondo. Forse fotografare è insieme un gesto di difesa e un gesto di presunzione. Un dare e ricevere che travalica il tempo. La possibilità di vedere le cose non per come esse sono o non sono, ma per come il mio sguardo si posa su di esse. Come se la fotografia compisse questo artificio meraviglioso, che io chiamo “malinconia del presente”. Fare fotografia è, forse, la capacità di vivere per quell’istante e solo per quello completamente dentro all’attimo, come se la fotografia validasse il “momento presente” rendendolo assoluto. Ricordo che qualcuno una volta mi disse: “Non c’è libertà nella dimensione orizzontale, cumulativa e stratificata della natura e della storia. Ma vi è nondimeno un istante di libertà, e si tratta proprio di un istante, dell’istante presente. Questo istante è atemporale, è fuori propriamente del tempo”. Da bambina vidi “Piccole Donne”. Mi rimase impresso ciò che il professore dice a Joe March, come consiglio: scrivi di ciò che conosci. Lo stesso consiglio che Rainer Maria Rilke elargiva nelle Lettere a un giovane poeta. Penso che sia la medesima
cosa in fotografia: Fotografa ciò che conosci. Non si può, secondo me, raccontare di qualcosa senza averla conosciuta. Raccontarla in modo che possa emozionare. Perché di questo si tratta. Di emozionare. E puoi farlo solo se, con grande sincerità, le tue proprie emozioni impregnano l’opera alla quale stai dando mano. Altrimenti magari verrà fuori una “bella” fotografia, ma di cui lo spettatore vedrà solo la superficie. Ci sono milioni di “belle” fotografie. Ma non tutte possono essere “buone” fotografie. Le “buone” fotografie mettono chi guarda, e chi scatta, in relazione con un pezzo di mondo, quello chiuso nel frame e quello fuori dal frame. In relazione con la storia visibile e con la storia nascosta delle immagini. Con quella vita che pulsa e vive, dentro quella specifica immagine. Facci caso, è sempre quello lo spartiacque. La “vita” che si percepisce. Le emozioni che ne scaturiscono.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

In alcuni tuoi scatti c’è anche una nota erotica. Ma cos’è per te l’erotismo?
“Guardare non è mai un atto innocente”. Mi piace pensare che l’erotismo sia ciò che accade nel momento in cui lo sguardo si tramuta in desiderio. Quel momento brevissimo in cui sai che tutto può accadere e c’è una strana elettricità nell’aria. Il luogo del desiderio è un luogo sfuggente però, è il punto cieco della nostra coscienza. Penso che ci sia qualcosa di conturbante nel cercare di “narrare” ciò che trovo inafferrabile per eccellenza. La conoscenza di quello che si desidera è mancante anche a noi stessi. Il desiderio non può essere visto proprio perché mancante, e quindi deve essere lasciato fuori campo. In definitiva potrei dire che l’erotismo è ciò che nelle immagini non si vede, ma si percepisce.

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Altre volte il corpo da te fotografato non è erotico. È quasi narrativo di una quotidianità del soggetto immortalato. Cosa ti spinge a fotografare un corpo nudo? Cosa ti trasmette e vuoi che trasmetta attraverso le tue foto?
Il nudo per me non è uno stato d’eccezione eroticizzato, esso fa parte della quotidianità. Per esempio, che ne so, io mi sveglio e vado a bere dell’acqua in cucina in mutande e t-shirt, a piedi nudi. Oppure esco dalla doccia e mi siedo sul bordo della vasca tamponandomi i capelli con un asciugamano e non per forza mi copro con dovizia i seni o le parti intime. Oppure finisco di fare l’amore e metto l’acqua a bollire per un tè o mi accendo una paglia appoggiandomi allo stipite della finestra, nuda senza quella camicia da uomo che si vede nei film. Ecco per me non c’è nessuna malizia in questi momenti, non c’è erotismo. È solo la vita. Ed è quello che mi interessa.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Hai mai avuto problemi con la censura dei social? Qual è il tuo rapporto con quest’ultimi?
Mi sono imbattuta anche io nella censura, come quasi tutti noi che non siamo nessuno. Perché i social riflettono su scala minore il meccanismo distorto della disparità sociale. E stiamo andando verso una deriva niente affatto rosea, parlando di libertà. Gli ultimi quattro anni, ma anche venti in realtà, sono stati all’insegna del declino della democrazia, o di una certa idea di mondo. Posso essere onesta? Se potessi li eviterei i social. Ma sono qui. E, per quello che faccio, cerco di usarli nel modo che ritengo essere quello più appropriato, per me intendo.

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Hai dei fotografi o delle fotografe a cui ti sei ispirata o che ami particolarmente?
Vado con un elenco completamente random?
Lise Sarfati, Alessandra Sanguinetti, Will McBride, David Armstrong, Davide Sorrenti, Corinne Day, Sophie Calle, Ryan McGinley, Birgit Püve, Marie-Laure de Decker, Sophie Calle, Bryan Liston, Larry Clark, Nan Goldin (of course), Wolfgang Tillmans, Lisetta Carmi, Diane Arbus, Alec Soth, William Eggleston, Théo Gosselin, Justine Kurland, Vinca Petersen, Larry Sultan, Seana Gavin, Ash Thayer, Tina Barney, Bruna Kazinoti, Marti Friedlander, Joel Sternfeld, Sonya Kydeeva, Sally Mann, Hannah Modigh, Rob Bremner, Tom Wood, Laura Pannack, Chad Moore, Petra Collins, Daido Moriyama, June Newton, Gregory Crewdson, Philip-Lorca DiCorcia, Bruce Wrighton, Pani Pau, Megan Doherty, Dmitry Markov, Nausicaa Giulia Bianchi, Rineke Dijkstra, Greg Girard, Grant Spanier, Duane Michals, Susan Wood e altre centinaia, un botto insomma.

Fotografia di Lulù Withheld
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Oltre alla fotografia, hai creato arte anche attraverso video e versi. Qual è oggi il tuo rapporto con i video e con la scrittura? E qual è stato il tuo rapporto passato invece con queste due arti?
A tal proposito un paio di settimane fa è uscito un videoclip “My Truth” che ho diretto per un musicista che adoro, che è Madisine. Credo che non ci sia un confine così netto fra le varie discipline e che ogni cosa sia strettamente connessa. Per esempio la mia fotografia risente del mio background cinematografico, i miei video del mio background fotografico, la mia scrittura – dicono – che sia una scrittura visiva. Che casino, eh? Ho una sorella, di poco più grande di me, alla quale devo il mio amore per il cinema e per la scrittura. Ho iniziato a scrivere per imitare lei che scriveva e che scrive tutt’ora e a guardare film perché lei mi consentiva di guardare “Fuori Orario” fino a tardi i sabato sera della mia infanzia anni 80. Credo di avere visto su Fuori Orario film davvero improbabili e sicuramente non propriamente adatti ai bambini. 

Fotografia di Lulù Withheld
© Lulù Withheld

Lulu, grazie ancora per il tempo che mi hai dedicato. Ultima domanda di rito prima per concludere questa piacevole chiacchierata. Hai progetti artistici per il tuo futuro? Cosa ti auguri come artista e cosa invece a livello personale?
Ma grazie a te! Ho iniziato, da qualche mese, una collaborazione con un artista, che è Emiliano Mondini, e insieme abbiamo diretto un piccolo “film” per In Allarmata Radura con la fotografia di Edoardo Podo, non dico altro per non spoilerare! Poi vediamo, ho iniziato questo inverno un progetto fotografico a lungo termine che è “Close to me” con Maru Barucco, musicista, ed Eugenia Galli, poeta. Lo scorso mese, con Sequenza Squarciata abbiamo dato mano a una piccola opera. Qualcosa di molto intimamente legato al gesto e alla memoria. Non sappiamo se vedrà la luce, ma intanto l’abbiamo “creata”. Let’s see! E poi una collaborazione, nel prossimo futuro, con Christian Anticamentepresente.
Infine, c’è una cosa che mi piacerebbe un casino fare: tornare “abbasc“ a Cosenza e lavorare a un progetto site-specific sui luoghi che ho attraversato e che appartengono alla mia memoria di adolescente. Cosenza vecchia, in primis. Chissà che non esca fuori qualcosa. (Anyway, nessuno di questi progetti mi consente di arrivare a fine mese*). E invece, ma quando collaboriamo fra di noi? 🙂

 

Contatti:
Instagram: lulu_withheld
E-mail: luluwithheld@libero.it

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1 commento su “Tsquirt incontra, intervista a Lulu Withheld

  1. Leggendo questa intervista mi sono spesso ritrovato ed ho condiviso molti dei pensieri di Lulu dato che cerco di scattare anche io e sono passato attraverso esperienze simili ai suoi.
    È bello sentire che qualcuno molto più bravo di te è arrivato alle stesse conclusioni…che sono comunque sempre conclusioni provvisorie.
    Grazie!

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